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Conoscenza è potere», un aforisma attribuito al filosofo inglese Francis Bacon, dovrebbe tradursi, oggi, «informazione è ricchezza». È sufficiente guardare ai colossi informatici della Silicon Valley per trovare conferma della veridicità di questa traslazione. Sfortunatamente i dibattiti di politica economica, particolarmente in termini di politiche fiscali, non sembrano tenerne conto. Siamo abituati a considerare tasse e trasferimenti pubblici come i principali strumenti di redistribuzione e opportunità, ma la mancanza di conoscenze specifiche e informazione induce perdite, che spesso sono regressive, in quanto affliggono specialmente individui che per estrazione socio-economica non ne hanno accesso.
Prendiamo il tema dell’alfabetizzazione economico-finanziaria. Si tratta di un punto assai dolente per l’Italia, con un’indagine di Standard & Poor’s che mostra come quasi due italiani su tre non siano in grado di rispondere correttamente a domande elementari su temi economico-finanziari, il peggior risultato tra i Paesi avanzati, e gli studenti italiani sono penultimi in uno studio dell’Ocse in 18 Paesi. Un articolo dell’economista Annamaria Lusardi insieme a Pierre-Carl Michaud e Olivia S. Mitchell, pubblicato recentemente sul «Journal of Political Economy», mostra come il 30-40%, della disuguaglianza in termini di ricchezza accumulata durante la vita possa essere spiegata da differenze nella conoscenza finanziaria, che permette di beneficiare di strumenti più sofisticati. Va sottolineato il termine “beneficiare”, dato che la mancanza di consapevolezza della propria incompetenza in materia può portare a un utilizzo improprio e tutt’altro che benefico di strumenti finanziari complessi. Uno studio di Benjamin Keys, Devin Pope e Jaren Pope mostra come, a causa della propria inerzia nel rinegoziare il mutuo dopo la discesa dei tassi di interesse, un 20% di famiglie americane perda in media la non trascurabile somma di 11.500 dollari lungo la durata del prestito.
Il ruolo redistributivo di conoscenza e informazione non è limitata all’ambito finanziario. Come favorire la frequentazione delle migliori università da parte di studenti meritevoli, ma con un background socio-economico svantaggiato? Un esperimento condotto negli Usa dalle economiste Caroline Hoxby e Sarah Turner mostra come la poca conoscenza di come funzionano effettivamente le università sia una barriera significativa alla partecipazione. Fornire informazioni rilevanti e dettagliate circa misure già esistenti, come borse di studio o esenzioni dai costi per presentare la propria domanda di iscrizione, ha un effetto molto forte sulla probabilità di frequentare le migliori istituzioni educative, con ovvie ricadute sulle prospettive future. Inoltre, questi benefici sono ottenuti a un costo molto inferiore rispetto a misure più “classiche”. Per esempio, l’aumento dell’ammontare degli aiuti economici stessi, il cui effetto è necessariamente limitato, se gli studenti che più ne avrebbero bisogno ne ignorano l’esistenza.
Purtroppo le notizie sul tema del ruolo redistributivo intergenerazionale dell’istruzione terziaria non sono buone. Per gli Stati Uniti, dati recenti suggeriscono persistenti barriere economiche all’ingresso per i prestigiosi college della cosiddetta Ivy League. I figli di genitori appartenenti all’1% più ricco della distribuzione del reddito hanno una probabilità 77 volte più alta di essere ammessi a un college della Ivy League rispetto a quella dei figli di genitori nel 20% di reddito più basso. Gli autori documentano inoltre uno smorzamento dell’efficacia dei college pubblici, tradizionali motori di mobilità intergenerazionale. Tra il 2000 e il 2011 è calato l’accesso alle università più efficaci nel consentire la scalata sociale dei figli delle famiglie meno abbienti dall’ultimo al primo quintile di reddito.
In Italia ci sono iniziative che vanno nella giusta direzione. Ne è un esempio il recente avvio del Comitato EduFin (Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria), diretto dalla stessa Lusardi. O la pressione per lo stanziamento di nuovi fondi per la ricerca di base. Si tratta di iniziative che rischiano di rimanere di contorno, mentre dovrebbero essere centrali nel dibattito di politica economica.
Il loro basso ritorno elettorale le rende poco attraenti per la politica. Oppure, visto che quando si parla di conoscenza si parla anche di ignoranza, è la politica a non conoscerne il ritorno economico.
Prendiamo il tema dell’alfabetizzazione economico-finanziaria. Si tratta di un punto assai dolente per l’Italia, con un’indagine di Standard & Poor’s che mostra come quasi due italiani su tre non siano in grado di rispondere correttamente a domande elementari su temi economico-finanziari, il peggior risultato tra i Paesi avanzati, e gli studenti italiani sono penultimi in uno studio dell’Ocse in 18 Paesi. Un articolo dell’economista Annamaria Lusardi insieme a Pierre-Carl Michaud e Olivia S. Mitchell, pubblicato recentemente sul «Journal of Political Economy», mostra come il 30-40%, della disuguaglianza in termini di ricchezza accumulata durante la vita possa essere spiegata da differenze nella conoscenza finanziaria, che permette di beneficiare di strumenti più sofisticati. Va sottolineato il termine “beneficiare”, dato che la mancanza di consapevolezza della propria incompetenza in materia può portare a un utilizzo improprio e tutt’altro che benefico di strumenti finanziari complessi. Uno studio di Benjamin Keys, Devin Pope e Jaren Pope mostra come, a causa della propria inerzia nel rinegoziare il mutuo dopo la discesa dei tassi di interesse, un 20% di famiglie americane perda in media la non trascurabile somma di 11.500 dollari lungo la durata del prestito.
Il ruolo redistributivo di conoscenza e informazione non è limitata all’ambito finanziario. Come favorire la frequentazione delle migliori università da parte di studenti meritevoli, ma con un background socio-economico svantaggiato? Un esperimento condotto negli Usa dalle economiste Caroline Hoxby e Sarah Turner mostra come la poca conoscenza di come funzionano effettivamente le università sia una barriera significativa alla partecipazione. Fornire informazioni rilevanti e dettagliate circa misure già esistenti, come borse di studio o esenzioni dai costi per presentare la propria domanda di iscrizione, ha un effetto molto forte sulla probabilità di frequentare le migliori istituzioni educative, con ovvie ricadute sulle prospettive future. Inoltre, questi benefici sono ottenuti a un costo molto inferiore rispetto a misure più “classiche”. Per esempio, l’aumento dell’ammontare degli aiuti economici stessi, il cui effetto è necessariamente limitato, se gli studenti che più ne avrebbero bisogno ne ignorano l’esistenza.
Purtroppo le notizie sul tema del ruolo redistributivo intergenerazionale dell’istruzione terziaria non sono buone. Per gli Stati Uniti, dati recenti suggeriscono persistenti barriere economiche all’ingresso per i prestigiosi college della cosiddetta Ivy League. I figli di genitori appartenenti all’1% più ricco della distribuzione del reddito hanno una probabilità 77 volte più alta di essere ammessi a un college della Ivy League rispetto a quella dei figli di genitori nel 20% di reddito più basso. Gli autori documentano inoltre uno smorzamento dell’efficacia dei college pubblici, tradizionali motori di mobilità intergenerazionale. Tra il 2000 e il 2011 è calato l’accesso alle università più efficaci nel consentire la scalata sociale dei figli delle famiglie meno abbienti dall’ultimo al primo quintile di reddito.
In Italia ci sono iniziative che vanno nella giusta direzione. Ne è un esempio il recente avvio del Comitato EduFin (Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria), diretto dalla stessa Lusardi. O la pressione per lo stanziamento di nuovi fondi per la ricerca di base. Si tratta di iniziative che rischiano di rimanere di contorno, mentre dovrebbero essere centrali nel dibattito di politica economica.
Il loro basso ritorno elettorale le rende poco attraenti per la politica. Oppure, visto che quando si parla di conoscenza si parla anche di ignoranza, è la politica a non conoscerne il ritorno economico.